vescovoIl vescovo di Ascoli, monsignor D’Ercole, si è dimesso ufficialmente. Ecco il comunicato che lui stesso ha scritto per annunciare la sua decisione.

“Lo scorso 13 ottobre ho presentato le dimissioni da vescovo di Ascoli Piceno nelle mani di Papa Francesco. Lo ringrazio, perché, accettando in anticipo la mia rinuncia, mi ha dato la possibilità di realizzare una scelta su cui meditavo da tanto tempo e che avrei voluto concretizzare al compimento dei miei 75 anni: tornare alle origini del mio sacerdozio, in Africa, tra “i più poveri tra i poveri”, come direbbe Santa Teresa di Calcutta.

Sin dal terremoto del 2016, che ha inferto una grave ferita nelle nostre popolazioni, ho condiviso la sofferenza e l’incertezza di molti, sofferenza e incertezza proseguite e aumentate a causa della pandemia del Covid-19, che ha fatto crescere in me inquietudine, con tanti interrogativi su come poter essere utile ai fratelli e alle sorelle, come me, sofferenti e impauriti dall’incognita del futuro, accentuata dai rischi della pandemia.

Posso dire di aver fatto tutto ciò che mi è stato possibile per accompagnare la comunità diocesana e aiutare e sostenere tutti, soprattutto chi ho visto soffrire di più. Mi sono ispirato all’icona della Chiesa come “ospedale da campo”, accogliente verso ogni tipo di povertà, secondo quanto insegna Papa Francesco. Sono venuto così a contatto con molte persone e con loro ho toccato con mano problematiche e fragilità, alcune legate proprio alla solitudine e alle restrizioni che abbiamo vissuto durante l’inatteso lockdown. Chi mi conosce sa che ho cercato di assumere in modo pieno la mia responsabilità di vescovo guida della diocesi, mai girandomi dall’altra parte. Tutto questo mi ha però logorato e ha suscitato in me domande più profonde sul mio ruolo di pastore.

Davanti a situazioni impreviste e cariche di fatiche e sconfitte umane, pur impegnando ogni sforzo, ho sentito che questo non basta. È necessario un aiuto supplementare di coraggio e di speranza che non viene da noi. Mi è diventato sempre più chiaro il bisogno di fare qualcosa di più impegnativo per tutti coloro che sono vittime della “cultura dello scarto”, ogni tipo di scarto sociale e spirituale. In tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo, è indispensabile seminare e testimoniare la “speranza affidabile” di cui Benedetto XVI parla nell’enciclica Spe Salvi.

Ispirato dalle parole che Benedetto XVI pronunciò il giorno prima di lasciare il pontificato: «Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”, anche io ho consegnato le mie dimissioni nelle mani del Papa. Nella sua decisione di accoglierle ho visto un segno a conferma del percorso di discernimento che era in atto. Mi sono lasciato condurre dal Signore, anche se con interiore sofferenza, per avviare una nuova tappa del mio servizio alla Chiesa.

D’accordo con i superiori della Congregazione religiosa cui appartengo, quella della «Piccola opera della Divina Provvidenza» di San Luigi Orione, ho pensato opportuno ritirarmi, per un certo periodo, in un monastero in Africa, dove ho iniziato il mio sacerdozio, per immergermi in un totale clima di preghiera e di contemplazione. Credo che in questo momento il soccorso debba venire da Dio, implorato con intensa preghiera. Non abbandono quindi la vigna del Signore nella quale continuerò a operare con interiore partecipazione, offrendo il mio sostegno ai sacerdoti e alle nostre comunità in maniera più profonda e spirituale.

Nello spirito del fondatore, san Luigi Orione, proseguirò poi, secondo quanto il Signore mi suggerirà, a dare la vita per il bene delle anime e nell’accoglienza di tutti, in particolare dei giovani e dei poveri, al servizio di Cristo e della Chiesa, a sostegno sempre dell’azione profetica del Papa e in piena comunione con lui.

Ringrazio tutti, iniziando dai confratelli vescovi della Conferenza Episcopale delle Marche, che mi hanno accolto con affetto, e, dopo aver condiviso insieme i passi del ministero in terra marchigiana, mi sono stati vicini anche in quest’attuale, libera ma sofferta scelta.

Un grazie di cuore ai sacerdoti, primi testimoni del mio episcopato, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, alle monache di clausura, ai collaboratori pastorali, ai catechisti, alle autorità civili e militari, ai poveri, ai carcerati, ai bisognosi e ai migranti che hanno bussato alla porta dell’episcopio e l’hanno trovata sempre aperta. Così come ringrazio i malati che hanno alimentato con l’offerta delle loro sofferenze il mio ministero.

Credetemi: ho voluto bene a tutti, chiedo scusa per eventuali miei errori e abbraccio ciascuno con affetto.

Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito di Ascoli Piceno”.

 

Ed ecco la lunga lettera che ha scritto monsignor D’Ercole ai fedeli:

Fratelli e figli carissimi,

con affetto paterno, rispetto e discrezione busso alle porte dei vostri cuori per comunicarvi, non senza umana trepidazione, il mio stato d’animo nell’ora in cui Papa Francesco accoglie la mia rinuncia alla guida della diocesi di Ascoli Piceno. E’ mio desiderio ora tornare alle origini del mio sacerdozio, in quella «libertà di servire i più poveri tra i poveri»[1], come direbbe santa Teresa di Calcutta.

Da quando è iniziata la pandemia, infatti, vi confesso che mi sono interrogato più volte, pregando davanti al Tabernacolo, a Gesù-Eucaristia, nella cappella dell’episcopio, perché il Signore mi illuminasse sul senso del mio cammino sacerdotale ed episcopale. In questi mesi ho chiesto con insistenza a Dio di indicarmi nuovamente la strada come fece quel lontano 5 ottobre 1974 quando fui ordinato presbitero, a Roma, dall’allora vescovo Jacques-Paul Martin, poi cardinale.

Più volte mi sono tornate alla mente le parole del Papa emerito Benedetto XVI che mi volle vescovo, inviandomi come ausiliare nella ferita diocesi de L’Aquila, e che mi ha sempre testimoniato una paternità specialissima e al quale rinnovo profonda gratitudine e affetto filiale.

Nella sua ultima udienza generale del mercoledì, il giorno prima di lasciare il pontificato, Benedetto XVI disse: «Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi»[2]. Queste parole hanno ispirato la riflessione che mi ha portato, il 13 ottobre scorso, anniversario dell’ultima apparizione della Madonna a Fatima, a presentare le mie dimissioni nelle mani di Papa Francesco, con il quale ho sempre coltivato una piena comunione così come con i suoi predecessori.

A lui sono grato per avermi chiamato a servire la diocesi di Ascoli Piceno duramente provata dal sisma del 2016 e da numerose difficoltà umane, sociali ed economiche connesse con le conseguenze del terremoto e, poi, ancora più recentemente messa a dura prova dalla pandemia del Covid-19 che tuttora persiste. Ho fatto ciò che mi è stato possibile per aiutare e sostenere tutti, specialmente chi ho visto soffrire di più. Sono venuto a contatto con molte persone e con loro ho toccato con mano problematiche e fragilità, alcune legate proprio alla solitudine e alle restrizioni che abbiamo vissuto durante l’inatteso lockdown. Chi mi conosce sa che ho cercato di assumere in modo pieno la mia responsabilità di vescovo guida della diocesi, mai girandomi dall’altra parte soprattutto quando qualcuno è venuto a trovarsi in serie difficoltà. Tutto questo mi ha però logorato e ha suscitato in me domande più profonde sul mio ruolo di pastore.

Ringrazio tutti iniziando dai confratelli vescovi della Conferenza Episcopale delle Marche che mi hanno accolto con affetto, e, dopo aver condiviso insieme i passi del ministero in terra marchigiana, mi sono stati vicini anche in quest’attuale, libera ma sofferta scelta.

Un grazie di cuore ai sacerdoti primi e fattivi collaboratori del mio episcopato, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, alle monache di clausura, ai collaboratori pastorali, ai catechisti, alle autorità civili e militari, ai poveri, ai carcerati, ai bisognosi e ai migranti che hanno bussato alla porta dell’episcopio e l’hanno trovata sempre aperta. Così come ringrazio i malati che hanno alimentato con l’offerta delle loro sofferenze il mio ministero in mezzo a voi.

Credetemi: ho voluto bene a tutti, abbraccio tutti e ciascuno!

A tutti chiedo perdono per le mie umane fragilità e mancanze!

Tutti metto nelle mani del Signore perché vi ricompensi con il centuplo per il bene che mi avete donato in questi anni aiutandomi ad annunciare unicamente Gesù Cristo Crocifisso e Risorto in mezzo a voi.

Nel mio ministero, mi sono fatto guidare e ispirare dall’invito di Papa Francesco di fare della Chiesa «un ospedale da campo»[3], di essere un vescovo con il cuore ferito dalla misericordia del buon Samaritano e dunque instancabile nell’umile compito di accompagnare l’uomo che «per caso» Dio ha messo sulla mia strada[4], accogliendo, di fatto, ogni persona e curando con amore specialmente quelle più bisognose, nel pieno rispetto di tutti.

È per questo che, in piena coscienza di fronte a Dio, sento di poter affermare anch’io con l’apostolo Paolo: «Mi sono fatto debole con i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22).

Come vescovo, vigile sentinella del gregge di Cristo, so di dover essere, sempre e comunque, profeta di Verità e testimone della Speranza che richiama continuamente alla memoria l’alleanza di Dio con il suo popolo e, perciò, con la nostra vita. Condivido la preoccupazione crescente per il diffondersi del coronavirus che ha seminato in tanti una forte paura di ammalarsi e di morire.

Ho capito che, forse, la Chiesa come “ospedale da campo” ha bisogno urgente, inoltre, di operatori che siano testimoni e costruttori di speranza, di quella speranza cristiana di cui l’apostolo Pietro afferma: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Così, mi sono reso conto che, probabilmente, occorre qualcosa di più e di diverso! Davanti a situazioni impreviste e cariche di fatiche e sconfitte umane, pur impegnando ogni sforzo, ha sentito che questo non basta. È necessario un aiuto supplementare di coraggio e di speranza che non viene da noi. E così in me è parso sempre più chiaro il bisogno di fare qualcosa per coloro che sono vittime della “cultura dello scarto”, ogni tipo di scarto sociale e spirituale. In tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo, è indispensabile seminare e testimoniare la “speranza affidabile” di cui Benedetto XVI parla nella sua enciclica Spe Salvi.

La povertà più struggente dell’epoca attuale non è quella materiale, ma la perdita della speranza dovuta all’assenza di Dio e per questo è importante offrire a tutti luoghi di accoglienza e di ascolto, «centri di rianimazione» dello spirito e di “riabilitazione alla speranza”, per aiutare a incontrare l’unico vero medico delle anime che è Gesù Cristo, il Risorto!

Più volte vorrei, pertanto, gridare a tutti queste parole di Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenza, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39).

In questo contesto è cresciuta in me tanta inquietudine mentre diventava chiaro il bisogno di fare qualcosa d’altro, qualche cosa di più, ma non riuscivo a capire che cosa. Mi sembrava che come con Abramo, il Signore mi conducesse verso altre scelte per il mio bene e per il bene della mia gente, al servizio di Cristo e della Chiesa. Ho deciso per tutto questo di affidarmi totalmente a Dio e di Lui fidarmi con un profondo «abbandono confidente» (cfr Is 30,15), disposto ad accogliere in me qualunque cosa Egli volesse chiedermi.

Ecco, dunque, che nella decisione del Papa di accogliere le mie dimissioni ho visto un segno a conferma del percorso di discernimento che era in atto e mi sono, così, lasciato condurre dal Signore per avviare una nuova tappa del mio servizio alla Chiesa. Se, infatti, lascio la guida della diocesi a un nuovo Pastore che con energie più fresche potrà reggere la comunità diocesana, come vescovo emerito continuerò ad accompagnarla in modo diverso e non meno significativo.

Sono pronto come sempre a fare la volontà divina, fedele al motto del mio episcopato “In manus tuas”, mentre mi ritorna in mente che nella nostra vita, in ogni circostanza, dobbiamo far riferimento a questo passo della Sacra Scrittura: Gesù «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,8).

D’accordo con i superiori della Congregazione religiosa cui appartengo, quella della «Piccola opera della Divina Provvidenza» di San Luigi Orione, ho pensato opportuno ritirarmi, per un certo periodo, in un monastero in Africa, dove ho iniziato il mio sacerdozio, per immergermi in un totale clima di preghiera e di contemplazione. Credo che in questo momento il soccorso debba venire proprio da Dio, implorato con intensa preghiera. Non abbandono quindi la vigna del Signore nella quale continuerò a operare con più interiore partecipazione, offrendo il mio sostegno alle nostre comunità in maniera più profonda e spirituale. Nello spirito del santo fondatore, Luigi Orione, proseguirò poi, secondo quanto il Signore mi suggerirà, a dare la vita per il bene delle anime e nell’accoglienza di tutti, in particolare dei giovani e dei poveri, al servizio di Cristo e della Chiesa, a sostegno sempre dell’azione profetica del Papa e in piena comunione con lui.

Queste mie dimissioni vogliono, pertanto, essere anche un gesto di totale disponibilità al servizio della Chiesa e di Padre Francesco perché sia sostenuto nella sua essenziale e costitutiva missione di guida e di comunione nella Chiesa.

Carissimi,

vi domando di pregare per me e per il mio successore, il prossimo vescovo che la Divina Provvidenza per voce del Santo Padre vorrà donare alla nostra diocesi.  Quello di oggi non è un addio ma il saluto commosso, affettuoso e sofferto del vostro vescovo Giovanni. Continueremo sicuramente a camminare insieme, come autentici figli della Chiesa, uniti dalla fede in Gesù Cristo e sotto lo sguardo materno della Vergine di Fatima. A lei, come ricorderete, abbiamo consacrato la nostra diocesi a conclusione dell’indimenticabile visita che la sua sacra effige fece in tante parrocchie nel centenario delle apparizioni di Fatima.

Ad Assisi dove ho trascorso giorni in ritiro spirituale con tutti i miei confratelli vescovi delle Marche, ho voluto invocare anche l’intercessione di San Francesco, per questo, ora trovo opportuno e significativo congedarmi da voi rivolgendovi il suo saluto «Il Signore [ci] dia la pace!»[5].

Giovanni D’Ercole, vescovo emerito di Ascoli Piceno

[1] T. di Calcutta, La povertà è la libertà di servire i più poveri tra i poveri, testo inedito in SIR Agenzia d’informazione, 22 luglio 2016.

[2] BENEDETTO XVI, Udienza generale, 27 febbraio 2013.

[3] Cfr. Francesco, Intervista al P. A. Spadaro, 19 agosto 2013.

[4] Cfr. Francesco, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al Corso di formazione per nuovi vescovi, Sala Clementina, Venerdì, 16 settembre 2016.

[5] Fonti Francescane, n. 121.


Infine, ecco il videomessaggio del vescovo dimissionario:

 

Condividi:
Share Post
No comments

LEAVE A COMMENT

Don`t copy text!