di Armando Falcioni
Sono davanti allo specchio. Mi guardo. Cerco di togliere quel naso adunco che mi rimandava al più grande nostro poeta, che ci ha inorgoglito al cospetto del mondo intero. Rimane un buco bianco su di un viso colore ramato, Il silicone tarda a staccarsi.
“Ma cosa ho combinato?”-penso. La mia condizione di amministratore pubblico, l’età, la professione, una introversione innata mi avrebbero imposto assennatezza, compostezza e ruolo ai margini in questa lucida follia collettiva quale è il nostro carnevale. Eppure anch’io ho rotto per tre giorni quel confine sottile tra razionalità e follia, tra sacro e profano, mi sono calato in un moderno Edìpo, colui che confonde i ruoli per antonomasia, che uccide il padre e considera la madre come moglie finendo in un rapporto incestuoso.
Ma in fondo la magia di questo carnevale che non ha pari, che non può essere ripetibile in alcun modo ed in un altro dove, è questa, ovvero di finire in un incantesimo, seppur di breve durata, dove i ruoli imposti dalla società si perdono, dove il povero diventa ricco, il ricco- povero, il contadino- padrone e viceversa, la donna – uomo, il borghese-proletario in una orgia celebrale che annulla soggettività, frammenta la mente , la inebria senza necessità di alzare il gomito, una mescolanza senza misura di volti, colori, trucchi, risa.
Ecco perché, di fronte allo specchio, mi rassicuro di non essere andato oltre quella sana follia, ovvero quello uscire dai binari della razionalità, come accade in fondo quando si passa dalla veglia al sonno e ci si immerge, negli anfratti dei sogni, in un mondo privo di legacci, dove in un amen si passa da casa tua alle pianure americane, dove ti ritrovi il viso rassicurante di tua nonna, dove ricompaiono il volto di tua padre e tua madre giovani e ti illudi di accarezzarli, dove immagini luoghi o mondi che mai ritroverai al risveglio.
Anche quella è follia, che sembra equiparazione tra camicia di forza e medicine da sedazione ma che è in fondo è parte della mente umana, quella che ha prodotto opere d’arte, immense sequenze musicali, geni e sregolatezze regalate all’umanità.
Ed appunto, perdonatemi il raffronto, un carnevale, non ripetibile.
E mi rassicuro anche perché ho contribuito a tenere viva una tradizione secolare, quella della commedia dell’arte in versione moderna che solo uno che è vissuto tra gli echi di queste rue può riprodurre, quella rappresentazione scenica senza programma, senza testo, appena un piccolo canovaccio infarcito solo dalla spontaneità e dal genio che solo chi sa ridere di sé stesso e delle proprie storture è capace di inventare.
Si, sono stato protagonista di questa rivoluzione indolore, pacifica che si ribella alla violenza della globalizzazione, al pensiero conformista, unitario ed indiscutibile, pena l’ignominia ed il pubblico ludibrio, quella che vuole azzerare tutto, confini, autonomie, senso di comunità, storia, radici, tradizioni, che spaccia talvolta capricci come diritti, quella del pluralismo conformista, un ossimoro riconducibile a quello degli united color che a fronte di una indiscutibile inclusione e di sacra uguaglianza ti rifila la stessa maglietta.
Si mi sono pacificamente ribellato a questa dittatura del sorriso, che a fronte certi totalitarismi novecenteschi gli fanno un baffo, e che vorrebbe cancellare anche quel senso di identità che nel carnevale di Ascoli ci sta tutto.
È qui il segreto della maschera, al di là della interpretazione nei giorni del carnem levare, fuori dal fatto che in due riprese, insieme ad un inimitabile compagno di scena, abbiamo fatto rivivere due miti della millenaria storia della città, riconducendoli dal nostro Olimpo e riportarli fino a qui da noi, renderli ancora umani come è giusto che fosse.
Altrimenti non si spiegherebbe perché questa città, capace di una rappresentazione unica, affascina così tanto. Sarà forse per questo popolo folle, quello che armeggiò alla pari con Roma, che si divise tra guelfi e ghibellini, che esaltò poi rinnegò i Guiderocchi e i Malatesta. Un tassello in più per affascinare al cospetto del visitatore esterno insieme alle mura che parlano anche se immobili da secoli, le rue, gomitolo inestricabile della parte antica, che ti raggomitolano anche il cuore, il silenzio che ti rapisce.
È tardo pomeriggio del giorno dopo. Nella piazza più bella d’Italia rari passanti consumano il selciato.
Complice l’oscurità, e la miopia, sembrano vaghi fantasmi scuri, come le figure vaganti immaginate da Dante nella “Commedia”. Un giovane si fa comandare da un cane al guinzaglio, una coppia avanti con gli anni si tiene teneramente per mano, tre anziani occupano quei tavolini vuoti rimpiangendo il tempo andato e terribilmente perduto, un gruppo di giovani discetta sul banale e sul Picchio contro il Benevento, due negozianti, con le spalle appoggiate sull’uscio del negozio, sono solidali nella loro solitudine, attendendo un cliente che non arriverà mai quella sera.
No, non è solo il trucco che ha oramai cancellato sul mio viso quei giorni di sana e producente follia, non è solo quella luce gialla che traspare dalle vetrate della chiesa con l’eco del frate che ricorda che ritorneremo ad essere quelli che eravamo, nel giorno delle ceneri.
È soprattutto l’eterna guerra tra Dioniso ed Apollo, dove da quel giorno prevarrà la volontà del secondo, l’imposta regola non scritta della lenta, sana ma discussa vita di una piccola città di provincia, dove si ritornerà a quel rituale di ogni giorno, quello della razionalità e dello schema mentale che ne è la sua essenza, forse questa sì da maschera pirandelliana, ma che ne costituisce anche un grande limite.
Ma se così non fosse, se questo inimitabile disegno di città non fosse uno scrigno impiombato, anche nelle sue cerimonie sociali non codificate, se tutti noi non recitassimo, ignari, questo non discutibile copione, non ci sarebbe questo anelito di evasione, mai saremmo stati capaci di calarci in questa sana e non ripetibile e lucida follia.
Penso questo mentre sento rotolare in rua del Macello una di quelle bombolette da stelle filanti, dimenticata da un operatore ecologico distratto.
L’incantesimo è finito, nonostante folate di vento fanno danzare i lampadari colorati a tempo, come ballerine dell’avanspettacolo illudendo quei pochi coriandoli rimasti a lati delle colonne che quella piazza, la piazza più bella d’Italia, quella della sana ed innocente follia, sia rimasta ancora casa loro.