di Luca Marcolini
Ascoli-Brescia. Novanta minuti che, siamo certi, uniranno per una volta tutta la città. Migliaia di respiri e sospiri tutti insieme. Sì, anche coloro che non amano il calcio e se ne fregano di formazioni, classifica e tutto quello che fa parte del circo pallonaro, – ne siamo certi – saranno comunque lì a chiedere: “Cos’ha fatto l’Ascoli?”. Perché il pallone, da queste parti, va ben oltre l’agonismo e il risultato. Va ben oltre le critiche tecniche e meno tecniche, le scelte, la classifica. Qui il calcio, anzi l’Ascoli, è una questione anche d’orgoglio sociale, di appartenenza, dell’unica cosa che riesce alla fine ad unire tutti sotto un solo simbolo e un solo nome. Ecco perché, nel match-salvezza di questa sera scenderanno in campo anche gli ascolani, anche quelli apparentemente indifferenti, o quelli talmente piccoli da non andare oltre l’accennato sventolìo di una bandiera. O, ancora, quelli più anziani che accompagneranno, magari in silenzio, il rito della partita con un ricordo condito da un sorriso e persino una preghiera. L’Ascoli per gli ascolani è un sentimento che ti pervade anche quando apparentemente non te ne interessi. E’ una ragione da sostenere. E’ una fede da rispettare. E’ una valvola di sfogo. E’ qualcosa che sa diventare anche più importante rispetto alle cose che sono realmente molto importanti per il territorio. E’ un amore che, come tutti gli amori, è inspiegabile. E passa sopra ogni forma di snobismo. Difficile da far comprendere a chi arriva sotto le cento torri e cerca di capire. Quando gioca l’Ascoli, in fondo, si mette in ballo una parte del valore di un intero territorio. E tutto il resto, almeno per 90 minuti, è silenzio.